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di Gigi Moncalvo

Comunque la si voglia pensare un fatto è certo: dopo vent’anni Silvio Berlusconi ha finalmente capito e messo in pratica ciò che Fedele Confalonieri e Gianni Letta gli avevano sempre ripetuto nei momenti in cui manifestava l’intenzione di fare politica in modo diretto.

“Non devi esporti in prima persona”, ripetevano i due consiglieri, “devi servirti di qualcun altro: un esecutore, ben pagato, che ubbidisca ai tuoi ordini, li metta in pratica, rappresenti i tuoi interessi, sia docile e remissivo, qualcuno che tu possa tenere in pugno se un giorno per caso si montasse la testa e pretendesse di fare a modo suo”. In sostanza, si sarebbe dovuto trattare di un vero e proprio “prestanome”. Ovviamente, presentabile, senza scheletri nell’armadio, con un buon pedigree politico e una buona immagine, sorretto dalla simpatia e dai ditirambi di giornali e tv (questa parte del disegno era la più facile da realizzare).

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Quest’“uomo di paglia” avrebbe dovuto garantire prima di tutto che le banche che avevano prestato a Berlusconi e alle sue aziende molti miliardi di lire, non gli avrebbero mai chiesto di rientrare. E, al contrario, gli avrebbero allargato ancor di più il cordone dei finanziamenti. “Silvio, se sarai tu a candidarti in prima persona e se vincessero i comunisti, la prima cosa che faranno è ordinare al Credito Italiano e alla Banca Nazionale del Lavoro di revocarti i fidi e di pagare i tuoi debiti.

Invece, con un “prestanome” alla guida del tuo partito la situazione si calmerà e tutto andrà come prima, meglio di prima”, hanno a lungo ripetuto i due “consiglieri della corona”. Berlusconi, dopo aver fatto di testa sua, ha pensato che avessero davvero ragione quando Massimo D’Alema, nel corso della campagna elettorale del 1994 disse in TV: “Voglio vedere Berlusconi costretto a chiedere l’elemosina in via del Corso”. Ma poi “Baffino”, si è rivelato un “amico” dato che, appena due anni dopo (4 aprile 1996) si è recato in visita pastorale agli studi Fininvest di Cologno Monzese e, di fronte a Fedele Confalonieri e alle maestranze, ha rassicurato: “Non dovete temerci”.

Prima della discesa in campo del Cavaliere, il fidato “Fidel” e Gianni Letta – “un giornalista che non ha mai scritto un articolo ma solo le partecipazioni ai necrologi dei potenti”, secondo una azzeccata definizione – avevano anche trovato l’uomo su cui puntare, un nome sicuro, un tipo privo di fantasia e adatto allo scopo, un volto che poteva piacere, anche se non scaldava i cuori, perfino ai salotti, alle banche, all’establishment, ai Ferruccio De Bortoli e ai Paolo Mieli. Un uomo tale da garantire che nulla cambiasse anche se bisognava far credere il contrario, in quegli anni di mani pulite, fermenti, tintinnio di manette, “finte rivoluzioni”.

Si chiamava Mariotto Segni, era il figlio dell’ex presidente della Repubblica, aveva vivacchiato per anni nella Democrazia Cristiana, era bersaglio delle ironie di Francesco Cossiga, sassarese come lui. Nel periodo in cui Berlusconi, Confalonieri e Letta gli avevano messo gli occhi addosso, Segni stava spopolando con la sua vittoria nel referendum per cambiare la legge elettorale passando dal sistema proporzionale al maggioritario, provocando un cambiamento radicale nel sistema politico e con la prospettiva di introdurre anche l’elezione diretta dei sindaci e del presidente del consiglio, un’idea quest’ultima che piaceva molto a Berlusconi.

Il quale, dicendo ai suoi ai suoi due consiglieri di far finta di non sapere e contando sull’appoggio di Marcello Dell’Utri, stava costruendo il suo nuovo partito ritenendo inevitabile un impegno in prima persona per scatenare una sorta di referendum popolare sul suo nome. A convincerlo che avrebbe potuto vincere erano i sondaggi che allora commissionava a un suo dipendente, Gianni Pilo (i famosi sondaggi “pilotati”…) che lo vedevano al primo posto sia in fatto di popolarità, che di simpatia, sia come eventuale “ancòra di salvataggio” nel caso il Paese fosse andato alla deriva e ci fosse stato bisogno di un “Uomo della provvidenza” al di fuori dei soliti politici di professione.

Segni avrebbe potuto essere davvero la persona giusta? Berlusconi, dopo averlo studiato e fatto studiare, lo incontrò e gli offrì di essere il candidato premier del centro-destra. L’uomo politico sassarese, che nel frattempo aveva lasciato la DC a causa di Tangentopoli, in quel momento avrebbe davvero potuto avere “l’Italia in mano”, giornali e Tv gli dedicavano spazi spropositati e francamente immeritati. Ma Berlusconi aveva già capito che di lui non ci si poteva fidare, non sarebbe stato un docile esecutore dei suoi ordini. Anzi. Gli dava fastidio l’atteggiamento snobistico di Segni, l’aria di superiorità e il non eccessivo rispetto nei suoi confronti: “Questo qui è cresciuto in mezzo alla bambagia e da bambino giocava nei giardini del Quirinale. Non è uno come noi. E poi segue solo i consigli di sua moglie Vicky, la figlia dell’ambasciatore dell’Uruguay”.

Si era informato bene, lo spaventava il fatto che Segni andasse d’accordo coi comunisti, non solo perché il segretario del PCI, Achille Occhetto lo aveva appoggiato nel referendum sulla legge elettorale, ma per un’altra ragione sostanziale. Era infatti stato “svezzato” politicamente nella Parrocchia di San Giuseppe a Sassari, era uno dei “sos pizzinos”, i ragazzi, di mons. Giovanni Masia, anzi il suo pupillo. La sagrestia di mons. Masia, insegnante di religione al famoso Liceo Azuni, era un autentico laboratorio politico in cui nacque il dialogo tra cattolici, comunisti, massoni e banchieri, cioè i quattro pilastri su cui poggia la Repubblica.

Quel sacerdote era il confessore di due presidenti della Repubblica (Segni e Cossiga), la guida spirituale di Mariotto e di Arturo Parisi. il confidente del sen. Mario Berlinguer (il papà di Enrico) e di suo figlio Giovanni (futuro ministro della pubblica istruzione), oltreché del futuro “dominus” della Banca Commerciale Italiana, Sergio Siglienti (cugino di Berlinguer). Tra Berlusconi e Segni non poteva esserci alcun feeling e quindi alcuna intesa. Il primo aveva i soldi, la furbizia, le televisioni e conosceva i tempi giusti; il secondo non veniva dal marciapiede, era davvero abituato alla bambagia e non aveva avuto l’umiltà per andare a bussare alle porte dei “poteri forti”.

Com’era inevitabile, il primo trionfò, il secondo scomparve. Berlusconi lo irrise: “Aveva il biglietto vincente della lotteria di Capodanno ma lo ha perso e non lo troverà mai più”. Berlusconi non aveva tenuto conto, o forse l’aveva capito benissimo, di una regola che Mariotto Segni aveva imparato da mons. Masia: “Ogni individuo deve essere prima onesto e poi cristiano. Bisogna diffidare dei cattolici di facciata”. Era soprattutto questa la ragione per cui Mariotto diffidava del Berlusca.

Anche oggi, vent’anni dopo, in questo odierno mix tra cattolicesimo e politica, impegno sociale (vero o di facciata) e riformismo un tanto al chilo, sante comunioni e confessioni chissà fino a che punto sincere, lacrime pubbliche e risate private, disoccupazione giovanile e tartine al caviale, job act e festose strette di mano agli operai americani della FCA a Detroit che portano via il lavoro ai colletti blu in cassa integrazione perenne negli stabilimenti italiani della FIAT, sarà la storia a incaricarsi di dimostrare chi erano e chi sono le persone vere, sincere, oneste, perbene. E quelle permale.

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